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Dejima, la piccola porta dell’Occidente

Episodio: l’isola commerciale di Dejima

Fino a non molto tempo fa, il Giappone era un Paese molto orgoglioso e molto geloso delle sue tradizioni, al punto da digerire male la presenza di stranieri sul suo territorio, evitando qualsiasi contaminazione con l’Occidente. La politica isolazionista dell’Impero giapponese, durata secoli, e terminata in pratica con la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, è ben testimoniata dalla storia di Dejima e dei suoi commerci.

Dejima era una piccola isola artificiale, costruita nella baia di Nagasaki nel 1634, lunga 120 m e larga 75, collegata alla terraferma da una passerella, custodita da guardie nipponiche da un lato e terminante con una porta. Da quella porta e su quella passerella, dal 1634 al 1853, passarono le uniche merci di scambio fra il Giappone e il resto del mondo.

Dejima fu costruita da un gruppo di mercanti locali, desiderosi di consolidare i rapporti con i Portoghesi che già vivevano sulla terraferma a Nagasaki. A quel tempo le navi portoghesi bazzicavano già le coste dei mari del Levante, da Macao in Cina alle Molucche in Indonesia. L’ordinanza dello sho-gun Iemitsu, il prefetto di Nagasaki, fece finanziare ai Portoghesi stessi la costruzione di Dejima, e nello stesso tempo ne vietò in assoluto la presenza sulla terraferma; Iemitsu era preoccupato anche dal crescente numero di adepti che stava facendo nella sua regione il Cristianesimo, grazie alla predicazione dei Gesuiti (c’era sempre un Gesuita su ogni nave che partiva dal Portogallo…). Dunque: in omaggio alla regola che dice – anche oggi – che le merci passano ovunque, ma gli uomini vengono spesso fermati alla fontiere, su quella piccolissima piattaforma artificiale transitò una incredibile quantità di merci, sia in un senso che nell’altro. Invece, salvo pochissime eccezioni, nessun Europeo entrò in Giappone fino al 1853.

L’apogeo di Dejima si ebbe con gli Olandesi, che quasi subito, dal 1641, presero il posto dei Portoghesi. Da allora, il ruolo di monopolista fu detenuto dalla VOC, la Vereenigde Oostindische Compagnie, il corrispondente della Compagnia delle Indie Orientali della Corona britannica. Peraltro, non c’erano missionari al seguito dei mercanti olandesi…

Le 25 famiglie cui apparteneva Dejima riscossero regolarmente l’affitto dagli Olandesi, e lo fecero per più di due secoli; si preoccupavano dei marinai e degli ufficiali stranieri, garantendo loro il temporaneo vitto e alloggio, il disbrigo delle pratiche burocratiche (vi lavoravano fino a 150 interpreti), l’ordine pubblico (con 50 poliziotti) e favorendo persino un efficiente servizio di prostituzione. Potete trovare tante altre piccole curiosità su Dejima altrove, ma a noi interessa ora porre la nostra attenzione sulle merci: in cambio di porcellane, oggetti in rame e argento, lacche, saponi e profumi, in Giappone gli Olandesi importarono dalla Cina sete, cotone, prodotti medicinali, da Taiwan pelli di squalo, e più tardi dall’Indonesia lo zucchero, nonché dall’Europa strumentazioni tecnologiche; arrivò persino il primo biliardo (1764) e il primo pianoforte (1823); sull’isola fu prodotta anche la prima birra giapponese, durante l’embargo dovuto alle guerre napoleoniche. E soprattutto, attraverso Dejima in Giappone entrarono anche piante di interesse colturale come il cavolo europeo (Brassica oleracea) e il pomodoro (Solanum lycopersicon), e prese piede l’uso di bevande quali il caffè (intorno al 1823) e di dolci come il cioccolato (fra il 1789 e il 1801).

Viceversa, dal punto di vista botanico, a parte cospicue partite di riso (Oryza sativa), non uscì quasi mai nulla: dovremo aspettare la fine del XIX secolo per capire davvero quali piante crescessero in Giappone, dall’ortensia alla camelia, dall’aucuba al pittosforo, alla azalea, alla tuja, tutte ora immancabili ospiti nei nostri giardini; ed oggi sappiamo anche quale gusto hanno il wasabi, il shiso, il fagiolo azuki, il daikon. I tempi della leggendaria Dejima sono ormai finiti, il mondo si è globalizzato.

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