Piante in viaggio

 

 Le protagoniste

 

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TAMARO: Non si picchiano le donne

Quando l’ho conosciuta, molti anni fa, questa liana mi è stata presentata come l’unica rappresentante europea della sua famiglia, altrimenti sparsa per il mondo ma in zone tropicali. La famiglia è quella delle Dioscoreaceae, ed il suo rappresentante più noto è la Dioscorea, il genere a cui appartengono le diverse specie di igname coltivate nel mondo. Di recente, anzi, questa specie è stata fatta rientrare nel genere principale e andrebbe chiamata Dioscorea communis, ma a me piace continuare a chiamarla Tamus communis, il tamaro.

Il tamaro è una liana lunga qualche metro, dal fusto di consistenza erbacea, molto flessuoso, striato. Le foglie, dotate di picciolo evidente, sono opposte, cuoriformi, a nervature subparallele (si allargano alla base e si riavvicinano senza toccarsi), margine intero ed apice acuto; sono verdi chiaro, e di consistenza tenera. I fiori, posti in gruppetti all’ascella delle foglie, piccoli e poco appariscenti, hanno corolla divisa in sei lobi; i maschili sono disposti in lunghi racemi, i femminili sono più brevi. I frutti sono bacche rosse, velenose, contenenti 6 piccoli semi.

Il tamaro vive in boschi di latifoglie collinari (castagni, carpini) e radure, in un territorio che copre buona parte dell’Europa (a nord fino all’Inghilterra), dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente.

Di solito, questa specie viene segnalata fra le piante velenose della nostra flora, per la presenza di ossalato di calcio e potassio, saponine, tannini e una sostanza analoga all’istamina: visto che i giovani fusti del tamaro sono molto simili ai turioni (i germogli) degli asparagi selvatici, è bene raccomandare una certa attenzione, ed anche se una cottura prolungata elimina buona parte delle sostanze tossiche ivi contenute, vi resterà solo un gusto amaro e salato (non li raccoglierete una seconda volta…). Anche il sapore acre e caustico dissuade dall’ingestione dei suoi bei frutti, che altrimenti causerebbero avvelenamenti gravi, con febbre alta, vomito, diarrea e difficoltà di respirazione.

L’uso medicinale del tamaro è dunque limitato ad applicazioni esterne: in passato le bacche erano impiegate nella cura dei geloni, e ancora oggi la polpa grattugiata della radice serve da impacco su distorsioni, contusioni, ematomi, lividi e gonfiori. L’eco dei suoi impieghi è rimasta tristemente nella denominazione francese del tamaro, conosciuto Oltralpe come “pianta delle femmine picchiate” (“herbe aux femmes battues”), ma spero che siano sempre meno le donne che debbano ricorrere al tamaro per mascherare le violenze subite… in Italia, come in Francia, come ovunque.

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