Per certi versi, se in un campo di grano maturo non si vedono i papaveri, mi insospettisco: devono averci buttato troppi diserbanti, troppi veleni. È bello il giallo dorato delle messi, ma mi sento più tranquillo quando lo vedo accompagnato dal rosso dei papaveri (o dal blu dei fiordalisi, è lo stesso). E poi ho in mente il verso di De André, quando descrive i mille papaveri rossi…
I botanici inseriscono il papavero nella categoria delle archeofite, quelle piante che hanno seguito l’umanità nel suo cammino, in concomitanza con la diffusione dei cereali; il papavero dovrebbe quindi essere originario della stessa area del frumento, in Asia occidentale; o meglio di quella famosa Mezzaluna fertile che fu teatro della Rivoluzione neolitica, diecimila anni fa. In genere, troviamo il papavero in coltivi, campi abbandonati, margini delle strade, prati sassosi, macerie, dal piano alla regione montana.
Il papavero contiene alcuni alcaloidi (fra cui la readina; complessivamente sono comunque in quantità minori rispetto al più famoso papavero da oppio, il Papaver somniferum), mucillagini e sostanze coloranti. L’infuso dei petali funziona come blando sedativo, tossifugo e diaforetico. Le tenere foglie primaverili sono consumate fresche in insalata o lessate in ripieni. I semi, noti come mak, si usano nella confezione di pani e dolci; se ne ricava inoltre un olio con buone qualità dietetiche. Con i petali si ottiene una tintura rossa usata un tempo dalle donne su labbra e guance.