È improbabile che il dattero del deserto giunga mai sulle tavole degli Occidentali, ma è senz’altro una specie che ha viaggiato molto, seguendo le rotte carovaniere tracciate da secoli fra le oasi delle aree desertiche del Vecchio Mondo, dal Sahara al Deccan. E lo ha fatto partendo dall’Egitto, la sua probabile terra di origine. Sono infatti almeno 4000 anni che sulle rive del Nilo si coltiva l’albero che oggi i botanici chiamano Balanites aegyptiaca: ce lo indicano le pietre votive trovate nelle tombe egizie sin dalla Dodicesima Dinastia (dal 1990 a.C. al 1780 a.C.).
Allo stato selvatico, questa Zygophyllacea è oggi diffusa non solo in Egitto, ma anche nella regioni più aride dei Paesi confinanti, dalle savane del Sahel, alla penisola Arabica ed a quella Indiana (fino al Myanmar). Proprio verso il suo estremo confine occidentale, in Mauritania come in Senegal, assume una discreta importanza economica: i frutti maturi, là chiamati teishit, dal gusto fra l’amaro e il dolce, sono popolari fra i bambini, mentre gli adulti in genere se ne cibano solo in caso di penuria di cibo; del dattero del deserto sono un ripiego alimentare anche i germogli e le foglie più tenere, preparate lesse come gli spinaci.
Il frutto, ricco in vitamina A, si fa talvolta fermentare per produrre bevande alcoliche; il seme ricco in olio (fino al 40%), nutriente, si mangia bollito insieme al sorgo.
Nota: in un minimarket multietnico del mio centro storico, ho trovato – e comprato subito - una confezione di datteri del deserto, seccati esattamente come i fichi: la loro consistenza è dura ma friabile, il loro gusto molto dolce, quasi troppo (di amaro non c’era più nulla). In tutti i casi, una esperienza organolettica interessante.