Mi pare di ricordare che qualche anno fa sia stato fondato, se non sbaglio da Vaime, un club “contro la rucola”, per reagire a quella moda che stava inserendo ovunque le foglie di Eruca sativa in tutti i piatti, sulla pizza, sul carpaccio, nelle misticanze, persino come surrogato del basilico – ai miei occhi di ligure – nelle salse (il pesto di rucola).
In realtà la rucola (o ruchetta) non è una novità nel panorama erboristico e gastronomico italiano: Crucifera di origine europea, comune in luoghi aridi e distrurbati, era molto apprezzata nell’antichità sopratutto per le sue doti curative di tipo digestivo, depurativo, stimolante, tonico, ma c’è dell’altro. Il greco Dioscoride, affermava che mangiata cruda in abbondanza “destava Venere”, e più o meno lo stesso sosteneva il latino Columella, specificando che “l’eruca eccita a Venere i mariti pigri”. Plinio annotava che “il desiderio del coito viene stimolato anche dai cibi, come l’eruca…”, mentre Ovidio, saggiamente, nella sua Ars Amatoria sconsigliava l’uso della “eruca salax” o “herba salax” (erba lussuriosa) a chi usciva da recenti delusioni d’amore.
I Romani, che oltre alle foglie ne consumavano regolarmente i semi, le attribuivano perciò qualità di potente afrodisiaco e ne ottenevano filtri amorosi, coltivandola direttamente nelle aiuole intorno alle statue falliche erette in onore di Priapo, il dio della virilità. La fama afrodisiaca della rucola continuò per tutto il Rinascimento: l’erborista Matthias de Lobel (XVI sec.) narrò di certi monaci che, stimolati da un cordiale a base di rucola, abbandonarono il voto di castità.
Chissà, forse vi ho fatto venire qualche idea quando dovete scegliere fra una quattro stagioni o una pizza con la rucola…