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Campanilismo da riconsiderare

Cucine d'Italia: la cucina lombarda milanese

Talvolta, le cose che racconto feriscono un poco la vanità degli ascoltatori, ad esempio quando dico che di origine il basilico non è ligure, o che le arance sono cinesi. L’orgoglio campanilista di molti lettori accetta malvolentieri queste informazioni, ma bisognerebbe capire che sto cercando di evidenziare la capacità di ogni popolo di ri-elaborare i prodotti che gli arrivano sottomano, da qualsiasi parte del mondo essi provengano. È così che si inventano nuove ricette, sposando nuovi gusti e scoprendo nuovi modi di cucinare. Per intenderci, siamo stati noi Europei ad inventare le patate fritte, non i peruviani.

Un esempio di piatto che non ha quasi alcun ingrediente vegetale di origine locale è il risotto allo zafferano, vanto della cucina milanese. Nella sua ricetta canonica, il più famoso risotto italiano prevede un leggero soffritto di cipolla e di midollo di bue nel burro, la tostatura del riso (Oryza sativa, varietà Carnaroli), la aggiunta graduale di brodo fino alla cottura, un po’ di vino bianco a sfumare, il rimescolamento continuo durante il quale si aggiunge il formaggio grattugiato e lo zafferano (Crocus sativus). Se pensiamo che lo zafferano è mediorientale, il riso è cinese ed anche la cipolla (Allium cepa) dovrebbe essere stata domesticata in Centrasia, capiamo che questo ottimo prodotto gastronomico è frutto di una rielaborazione di materie prime che sì, erano disponibili e abbondanti a Milano, ma che avevano già percorso un lungo viaggio prima di arrivare nel capoluogo lombardo.

Anche le varianti del risotto alla milanese meritano un commento. Alcune contemplano prodotti di origine italica o comunque mediterranea, precolombiana: sono quelle con gli asparagi (Asparagus officinalis), con le cime del luppolo (Humulus lupulus) e con legumi come ceci, fave o piselli; non può invece essere precolombiana la variante con i fagioli borlotti (cultivar di Phaseolus vulgaris), giunti dall’America Latina, così come quelle con il pomodoro (Solanum lycopersicum) e con la zucca (Cucurbita maxima), tutte specie arrivate da oltre oceano.

Si può richiamare alla antica tradizione italica, addirittura celtica, come sostiene Pietro Verri nella sua Storia di Milano, l’altro vanto della cucina milanese, la cassoeula: le molte parti di maiale, grezzo o lavorato, che finiscono in questa complessa ricetta vengono stemperate e almeno un poco sgrassate alla fine da una abbondante dose di verza (Brassica oleracea var. capitata); non a caso, oltre al nome di “posciandra” che il Verri gli dà, la cassoeula è nota anche come “bottaggio di verze”.

In effetti il cavolo è stato un ortaggio di successo nella storia di Milano e dintorni: ad esempio la var. sabauda della Brassica oleracea, ossia il cavolo verza, è commercializzato anche come “cavolo di Milano”.

Sulle tavole milanesi abbonda naturalmente la polenta, ottenuta dalla farina di mais (Zea mays, che comunque è messicano), ma questo è un tratto distintivo un po’ di tutta la pianura Padana e dell’intero arco alpino.

Anche se non è proprio dietetica né vegetariana, la cucina meneghina sa valorizzare oltre al cavolo molti altri ortaggi, come barbabietole, spinaci e cardi, ma soprattutto gli asparagi, che vengono cucinati “alla milanese” se fritti nel burro integrandoli con un uovo e una abbondante spruzzata di grana padano.

Le altre ricette che ho trovato si riferiscono in modo meno specifico alla città di Milano e più in esteso alla Lombardia e alla pianura Padana, ma lasciatemi finire con la citazione di tre dolci dal pedigree milanese D.O.C.: il panettone, il pan mejno e la torta meneghina.

Il panettone è nato proprio a Milano, si vuole dalla inventiva disperata di Toni, il cuoco di Ludovico il Moro, che aveva lasciato bruciare il dolce programmato, e mise alla rinfusa gli ingredienti che aveva sotto mano per riparare il danno. È interessante notare che per il “pan del Toni”, nome originario del panettone, ci fosse a disposizione frutta secca (uvetta) e candita (scorza di cedro, Citrus medica) tagliata a cubetti. La forma del panettone cambiò poi grazie al pasticcere ed industrale Angelo Motta, conquistando dai primi del ‘900 le tavole natalizie di tutta Italia. E comunque il panettone deve avere i canditi, così come il pesto deve avere l’aglio.

Il pan mejno ha una storia particolare, visto che ancora si fa nelle pasticcerie milanesi, ma ormai manca il suo ingrediente principale, la farino di miglio (“mej” in dialetto, ossia il Milium effusum), introvabile, sostituita oggi da una miscela di più farine. Si preparava il giorno di San Giorgio (il 23 aprile per il calendario ambrosiano), data in cui fiorivano i sambuchi (Sambucus nigra), con i cui fiori si cospargevano appunto i “pan de mej”.

La tipica torta meneghina non ha invece problemi di disponibilità di ingredienti: le mele (Malus domestica) si trovano tutto l’anno, così come uova, zucchero e farina. Dopo di che versare il tutto in una teglia imburrata e cuocere al forno a 200 °C per 40 minuti…

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